Viterbo, famiglia sarda in manette per sfruttamento del lavoro nero ed estorsione
Le indagini sono partite dopo la morte di un albanese di 44 anni ed hanno consentito ai militari di ricostruire il clima di violenza ed intimidazione nel quale lavoravano 17 dipendenti. Oggi gli arresti ed il controllo giudiziario delle aziende.


(AGR) carabinieri di viterbo : arrestati dai carabinieri del
nucleo investigativo 4 imprenditori italiani di origine
contestuale controllo giudiziario di 5 aziende agricole.
Questa mattina i Carabinieri del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Viterbo, al termine di una prolungata attività d’indagine hanno eseguito quattro ordinanze di custodia cautelare di sottoposizione agli arresti domiciliari nei confronti di una famiglia di imprenditori italiani di origine sarda stabilitasi da tempo ad Ischia di Castro (VT): tutti i componenti, padre e madre di 75 e 70 anni e due figli di 49 e 38 anni, sono stati ritenuti tutti responsabili di sfruttamento del lavoro, nonché estorsione nei confronti dei familiari di un loro dipendente defunto. Contestualmente sono state poste sotto controllo giudiziario 5 imprese agricole, facenti parte di fatto di un’unica holding familiare.
L’indagine, coordinata dal sostituto procuratore dr. Stefano D’Arma, ha avuto inizio a seguito dal decesso di un cittadino albanese di anni 44, rinvenuto cadavere in località Ponte san Pietro di Ischia di Castro, al confine con la Toscana. Ad allertare il 118 ed i carabinieri della locale Stazione è stato il cognato del defunto, il quale ha fornito una versione falsa di quanto accaduto, asserendo che l’uomo era deceduto improvvisamente mentre erano diretti in macchina verso Pitigliano. La stranezza del racconto, il ritardo con cui sono stati chiamati i soccorsi, e l’anomala presenza sul posto di due noti imprenditori agricoli, giunti prima ancora dei soccorsi hanno insospettito i militari della Stazione di Ischia di Castro.
Le complesse indagini condotte dal Nucleo Investigativo del Comando hanno dimostrato con certezza un diverso svolgimento dei fatti e ricondurlo al contesto dello
sfruttamento della manodopera da parte dai datori di lavoro del quarantaquattrenne albanese. Gli investigatori hanno appurato che la vittima fosse un bracciante agricolo privo di permesso di soggiorno che da due mesi, per 800 euro al mese, lavorava in nero per conto della famiglia sarda di Ischia di Castro, circostanza negata da tutte le persone coinvolte.
Lo sventurato albanese, hanno ricostruito gli inquirenti, il pomeriggio del 7 giugno è morto a seguito di un improvviso malore mentre era nell’azienda agricola. Vengono quindi contattati i familiari dell’albanese e un suo cognato taglialegna residente a Manciano viene costretto, dietro minacce, a caricare sulla sua macchina il corpo senza vita dell’uomo avvolto in una coperta. A portarlo via lontano dall’azienda di famiglia ci pensano due degli imprenditori oggi arrestati (i figli), poiché il cognato era troppo scosso per guidare la sua autovettura, e giunti quasi al confine con la Toscana ormai alle otto di sera fanno chiamare il 118 a quest’ultimo .
Nei mesi successivi i familiari del deceduto, ascoltati dai carabinieri del Nucleo Investigativo e vinta la paura delle ritorsioni paventate data la fama di gente violenta di cui gode la famiglia sarda, oltre a raccontare la verità sulla morte del loro congiunto, hanno sottolineato come il corpo esanime del defunto sia stata trattato “come quello di una pecora”, poiché l’unica cosa che importava agli arrestati era che non fosse trovato morto nella loro azienda, per timore delle relative conseguenze.
Le indagini non hanno ancora consentito di stabilire con certezza quando esattamente l’uomo sia deceduto, se addirittura fosse ancora vivo quando è stato portato nel luogo da dove sono stati allertati i soccorsi, poiché è forte il sospetto che, oltre al malore, a cagionare la sua morte possa essere stata l’assenza di cure adeguate ed immediate. A tutti i componenti della famiglia di imprenditori agricoli è contestata anche l’estorsione ai danni del cognato dell’albanese, avendolo costretto, mediante reiterate minacce rivolte anche alla sua famiglia e al fine di guadagnarsi l’ingiusto profitto derivante dall’elusione delle loro responsabilità penali, civili ed amministrative, a rendere, tra l’altro, false dichiarazioni ai carabinieri di quanto accaduto
Da tale condotta è anche derivato un ingiusto danno agli eredi del bracciante, privati della possibilità di un giusto risarcimento. La posizione del “capofamiglia” è inoltre più grave in quanto responsabile del delitto di “minaccia per costringere taluno a commettere un reato”.
I carabinieri inoltre hanno svolto accurate ispezioni presso l’azienda e sono emerse altre gravissime irregolarità nei rapporti di lavoro con i dipendenti, costretti a svolgere pesanti mansioni da bracciante in gravosi lavori agricoli e di allevamento di ovini dietro compensi miseri, lavorando in pessime condizioni. E’ stato accertato infatti che altri 17 loro dipendenti, assunti in diversi periodi negli ultimi due anni (e che hanno collaborato solo perché hanno interrotto il loro rapporto lavorativo con gli indagati), venivano impiegati in turni massacranti dalle 9 alle 17 ore giornaliere, dall’alba al tramonto con solo un’ora e mezza di pausa pranzo, dietro il compenso di appena 1,16 euro per ogni ora di lavoro prestata a fronte degli 8 previsti dal contratto nazionale; una sola eccezione, l’unico operaio italiano di origine sarda, che invece riceveva un compenso di 4 euro per ogni ora lavorativa.
A carico dei datori di lavoro sono state riscontrate anche sistematiche violazioni delle norme relative:-al riposo e le ferie (di cui ovviamente non beneficiavano), il lavoro
notturno e festivo (indennità non retribuite) e quello straordinario (abbondantemente oltre ogni limite consentito); alla corresponsione all’INPS ed all’agenzia delle entrate, avendo evaso e non versato un totale accertato di 87.750 euro solo negli ultimi due anni per i previsti oneri contributivi, retributivi e fiscali (motivo ulteriore dell’arricchimento degl’indagati); in tema di sicurezza nei luoghi di lavoro, con i dipendenti che venivano altresì costretti a svolgere mansioni pericolose, a tre metri d’altezza senza protezione o mediante utilizzo di trattori su pendii scoscesi; in materia sanitaria, atteso che i lavoratori non venivano sottoposti alla prevista sorveglianza sanitaria, ma soprattutto lavoravano in condizioni assolutamente insalubri e vivevano all’interno dell’azienda in alloggi umidi, malsani e sporchi, ricavati da alcune stalle con pareti completamente ammuffite.
Ad aggravare il quadro di vessazione in cui vivevano i dipendenti è stato l’accertamento di un clima di violenza, di minaccia e di continue umiliazioni, a cui erano sottoposti i dipendenti.
L’attività si è concentrata sulle imprese riconducibili alla famiglia in questione, cinque, di fatto però un unico gruppo aziendale a conduzione familiare, con la madre che si occupa della parte amministrativa e gli uomini dediti alla gestione delle varie attività, principalmente di allevamento di ovini, tra i 4.000 e 5.000 capi, e conseguente lavorazione del latte e della lana.
Gli operai, è stato accertato, non hanno contezza per quale delle 5 imprese lavorano, ma più genericamente ritengono di lavorare per la famiglia. Il modus operandi poi è sempre il medesimo: all’insaputa del lavoratore, cui vengono arbitrariamente trattenuti i documenti, questi viene ufficialmente assunto, ma senza la firma di un contratto, in modo così da ottenere un duplice risultato: essere tecnicamente a posto in caso di ispezione, ma al tempo stesso porre in una condizione di assoggettamento il lavoratore, completamente all’oscuro di ogni suo diritto, e convinto di un lavoro molto “precario”.
In conclusione lo sfruttamento della manodopera è stato reso possibile dalla determinazione con cui la famiglia imprenditrice ha sfruttato le condizioni delle vittime, spesso quasi ai limiti dell’indigenza, fino ad assoggettarli completamente, poiché cittadini stranieri per lo più soli, con le famiglie da mantenere nei loro luoghi di origine, bisognosi della paga che veniva loro elargita come unica forma di sostentamento ed isolati dal resto della comunità, poiché di fatto impossibilitati per mancanza di tempo e di mezzi con cui muoversi ad uscire dall’azienda in cui vivevano e lavoravano. Il risultato finale è stato l’assoggettamento completo fino alla compressione quasi totale della capacità di autodeterminazione dei lavoratori sfruttati, ridotti a lavorare come automi in condizioni terribili per pochi soldi.
Per la gravità delle condotte riscontrate, attualmente l’intera holding familiare è stata posta sotto controllo da parte degli amministratori giudiziari nominati dal G.I.P., al fine di evitare il reiterarsi di condotte criminose di sfruttamento del lavoro secondo quanto previsto dell’art. 3 legge n.199/2016. Il provvedimento ha anche lo scopo di ridurre le ripercussioni negative in termini occupazionali, ed è la prima volta che un provvedimento di questo genere viene applicato nella Tuscia.