Smartworking, oltre sei milioni di italiani secondo il Politecnico di Milano i dipendenti coinvolti. Il punto della Confael
Il sindacato autonomo avvia un confronto sulle nuove modalità di lavoro: occasioni di valorizzazione delle identità ma attenzione a ricadute sociali importanti e a eventuali tagli di personale
(AGR) Si discute tanto di smartworking e lavoro agile una modalità lavorativa che riguarda, secondo gli ultimi dati del Politecnico di Milano, sei milioni e mezzo di italiani (di cui un milione e mezzo nella Pubblica amministrazione). Le ricadute sono molte in termini economici ma anche come impatto sociale. Molte aziende hanno già fatto intendere, con una serie di accordi sindacali interni, che esaurita la pandemia solo una parte dei dipendenti tornerà a lavorare come prima mentre 5,35 milioni di loro continuerà in modalità “da remoto”. Tutti numeri certificati dall'Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano.
Anche per il sindacato Confael, confederazione Autonoma Europea dei Lavoratori, è il momento di una riflessione. E lo fa con Martuscelli del comparto Ministeri di Confael e la psicologa del lavoro Domenica Lanna. Lo smart working, è l’idea dalla quale si parte, ha bisogno di orari precisi per evitare che il lavoratore, preso dall'entusiasmo, lavori più del previsto (come già registrato in alcune realtà lavorative) sottraendo tempo alla famiglia ed al riposo. «Che non si uccida la creatività che è contatto e confronto – mette in guardia la psicologa - e la socialità quotidiana perché ciò conduce a percepirsi isolati, tagliati fuori dalle prospettive aziendali, viene meno l’identità del lavoratore costruita per anni in confini riconoscibili, aumenta l’ansia conseguente aumento dello stress, dove i confini per gestirlo restano immutati. Il nuovo contesto di lavoro è ora – continua la psicologa - l’ambiente domestico in cui ci si muove in modo completamente diverso, e con nuovo adattamento dei tempi. Un nuovo scenario dunque tra capacità personali e abilità tecnologiche». In tale contesto il lavoratore secondo questa tesi diventa più autonomo, è più incentrato sull’obiettivo, il che ne modificherebbe e potrebbe accrescere la motivazione, con conseguente maggiore soddisfazione. «Ciò che può davvero costituire una risorsa non può essere percepita come nuova fonte di stress. Il lavoratore deve essere visto, stimolato ad una maggiore concentrazione e una reale conoscenza del proprio potere organizzativo».
Considerazioni che inevitabilmente hanno conseguenze sull’organizzazione stessa del lavoro e dell’impresa. «L’azienda stessa – dice Martuscelli - deve prevedere una riorganizzazione, una più consapevole trasmissione ai lavoratori dei ruoli e dei compiti. Il dubbio che può insinuarsi è che dietro la parola smart si nasconda non una risorsa ma l’ennesimo sotterfugio per ridurre le unità lavoro». Risorsa o pericolo dunque? «Ne andrebbero approfonditi tutti gli aspetti – conclude Martuscelli - con riguardo per il passato, attenzione al presente, sguardo al futuro».