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Siamo animali sociali, abbiamo bisogno di attenzioni e di interazioni; può cambiare il mezzo di comunicazione, ma non l’essenza dei nostri bisogni.

printDi :: 16 ottobre 2022 07:01
Lo Psicologo Andrea Pompili

Lo Psicologo Andrea Pompili

(AGR) Autore Andrea Pompili

Sappiamo tutti quanto sia importante per alcune persone il numero di Like e Visualizzazioni nei Social Network. Molti sono fortemente influenzati dal numero di reazioni che riescono a generare, dal numero di contatti che hanno. I social sono strumenti di comunicazione e come tali sono mezzi utilizzati per trasmettere un pensiero o uno stato d’animo. Se la comunicazione non va a buon fine, se nessuno reagisce a ciò che “postiamo”, è come se nessuno recepisse ciò che diciamo. È come se fossimo in una stanza, in una festa o in qualsiasi altro posto pieno di gente e nessuno ti ascoltasse o reagisse alla tua comunicazione. Essere ignorati genera, quantomeno, frustrazione. Essere invisibili agli altri è uno degli incubi più frequenti, soprattutto nell’età adolescenziale, ma non solo. Siamo animali sociali, abbiamo bisogno di attenzioni e di interazioni; può cambiare il mezzo di comunicazione, ma non l’essenza dei nostri bisogni. Essere riconosciuti, riscontrati e generare una reazione negli altri è fondamentale nel nostro sviluppo e nel mantenimento del nostro benessere psicologico.

 
L’isolamento, soprattutto quello subito, è rischioso. Se la nostra vita sociale si sposta verso il mondo social, lo fanno anche i nostri bisogni. Questo, però, potrebbe spiegare il desiderio di ricevere un like, ma non spiega la generazione degli stessi. Cosa ci spinge, invece, a mettere una reazione ad un post? Da una parte, credo, possa esserci una logica di sostegno. Mettere un riscontro al post di un amico, mostra a questo la mia vicinanza. È come dirgli: ti vedo, ti sono vicino (virtualmente e affettivamente). Supporto la tua immagine, quando l’amico/a posta una sua foto; gradisco la tua riflessione, quando posti un pensiero E lo faccio pubblicamente, appagando la tua richiesta implicita di supporto e magari il mio desiderio di farlo vedere agli altri. Quando, invece, viene dato riscontro ad un post di un personaggio pubblico, il cosiddetto influencer, credo la logica sia diversa. Se pensiamo al passato, esistevano entità che raggruppavano e portavano avanti un insieme di valori. I partiti politici, ad esempio, oppure lo Stato o il gruppo etnico. Oggi, negli Stati Occidentali, i grandi raggruppamenti che mettono insieme le persone vivono una fase di crisi. La compartecipazione è difficile da sollecitare e gli individui faticano a sentirsi partecipi di qualcosa.

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Un tempo l’appartenenza ad un gruppo, piuttosto che la condivisione di alcuni valori o credenze, veniva mostrata nel modo di vestire, nel comportamento e nelle ritualità. Appartenenza che da un lato permetteva di esprimere il proprio sentire, dall’altro permetteva di non sentirsi soli, di percepirsi come facenti parte di un unicum più forte e strutturato. Ritengo possibile che oggi attraverso la partecipazione sui social ai post degli influencer gli individui possano percepirsi facenti parte di una comunità. Comunità che condivide valori, pensieri, credenze e opinioni, che sostiene campagne sociali o attacchi politici. In poche parole, gli influencer soddisfano il bisogno di appartenenza della platea dei fruitori dei social.

L’influencer dice, scrive, posta ed esprime quello che io penso e lo fa con un megafono a cui non ho normalmente accesso, ma mi permette di pensare di esserne partecipe. Tale fenomeno vale sia nell’interazione di sostegno, vale a dire in tutti quei post a favore dell’influencer di turno, sia in quella di denigrazione o critica.

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